“Dio ci salvi dai sciacalli del Vajont”

La geologia non è una scienza esatta. L’ho imparato il primo giorno di lezione: puoi cercare delle equazioni per descriverla, definire dei criteri per raccontarla, o racchiuderla dentro diagrammi per ordinarla, ma sempre inesatta rimane.

L’unica vera regola utile al geologo di campagna (quello che si sporca le mani sul campo, per capirci) non viene insegnata all’università. Quando si vuole conoscere una certa zona, la prima cosa da fare è parlare con chi quella zona la vive. Con chi la conosce da quando era bambino e la rispetta con la dovuta riverenza. Se parli con un contadino, lui saprà dirti perché là c’è un avvallamento, o perché le abbiano provate tutte, ma lì l’acqua non si trova. O anche semplicemente perché un monte ha quel nome.

Per questo, da quando conosco il disastro del Vajont, continuo a chiedermi come si possa decidere di costruire una diga su un monte chiamato “Toc” (“marcio”, “a pezzi”, nel dialetto locale).

Un muro di cemento

Il mio primo impatto con la diga è un po’ confuso. Mi aspettavo di trovarmi davanti a qualcosa di imponente, di invadente, ma non è così. Arrivo da Longarone, quindi dal lato a valle, dove scorre il Piave, e la prima cosa che vedo è un piccolo spiraglio tra le montagne. Sembra quasi che le rocce vogliano nascondere quel mostro di cemento alto più di 260 metri e proteggere la valle e i suoi abitanti da ulteriori invasori. In realtà, è proprio questo che si cerca quando si vuole costruire una diga: una forra stretta con pareti ripide dove appoggiare le spalle della struttura e un fondovalle abbastanza ampio per immagazzinare l’acqua.

La diga del Vajont vista dal fiume Piave

Comincio a risalire il corso del torrente Vajont, tornante dopo tornante. Se non sapessi qual è la mia meta, potrei pensare di essere su una strada qualunque nelle dolomiti veneto-friulane: boschi rigogliosi ai lati, i soliti ciclisti della domenica che faticano sulle loro mountain bike e una visuale sulla valle del Piave da togliere il fiato. Ma appena uscita da una lunga galleria, distratta da ciò che mi circonda, mi imbatto nella diga. È la prima volta che mi trovo di fronte a un’opera del genere e sono sicura che un pugno mi farebbe meno male.

Il frastuono, nella mia testa, è assordante quasi quanto quello del Vajont che si getta nel vuoto sottostante.

Un mostro talmente massiccio quanto fuori luogo, evidentemente a disagio in un territorio così delicato. Per gli ingegneri dell’epoca era un’opera di pura avanguardia, l’ennesima dimostrazione di quanto l’uomo possa fare ciò che vuole della natura. E, se voglio essere onesta con me stessa, devo ammettere che vederla davanti a me dimostra come qui non sia l’ingegneria idraulica il problema.

45 secondi

Raggiungo il parcheggio a monte della diga e sono sempre più confusa. Autisti che suonano, autobus in manovra e turisti che, in rigorosa fila indiana, si apprestano a salire sul coronamento della struttura. Non mi sarei mai aspettata così tanta gente in una giornata piovosa di aprile. 

Provo ad aggiungermi a uno di questi gruppi, dopotutto oggi sono in visita anche io. Siamo vicini all’ingresso destro del coronamento, a pochi metri da una lapide in memoria del disastro. La guida comincia il suo racconto e capisco dalla passione con cui parla che non è l’ennesima vuota ripetizione di un testo imparato a memoria. 

La notte del 9 ottobre 1963, dal monte Toc si staccarono circa 270 milioni di metri cubi di roccia. Ma le cifre, presentate così, dicono poco o niente anche al geotecnico più esperto. Bisogna smontarle, paragonarle, per capirle. Con la stessa quantità di materiale franato nel bacino del Vajont si potrebbero riempire circa duecento campi da calcio con uno strato di terra alto quasi 200 metri. E, se questo strato fosse asportato da cento camion, servirebbero sette secoli per rimuoverlo del tutto. Affermare che è franato l’intero versante della montagna, quindi, non è un eufemismo. 

Se mi volto a sinistra, posso vedere chiaramente il piano di scivolamento della frana. Il suo fronte superiore ha un’ironica forma a “M”, come come l’iniziale del geologo austriaco Müller. Il suo fu il primo rapporto a descrivere l’esistenza di una paleofrana già nel 1961 ma, come dimostrano gli avvenimenti futuri, non venne ascoltato. L’ultima cosa che la guida ci spiega è la velocità con cui questa massa di terra, roccia e acqua è scivolata nel bacino. Secondo le stime degli esperti ha raggiunto i 90 km/h. Così, in soli 45 secondi è riuscita addirittura a risalire sul versante opposto. L’acqua raccolta dalla diga è stata spinta in due direzioni, raggiungendo un’altezza di 250 metri: un’onda, verso monte, ha lambito i villaggi di Erto e Casso; un’altra, verso valle, è stata talmente alta da superare come uno tsunami l’enorme struttura idraulica e investire Longarone, accelerata dalla stretta forra.

I morti sono stati circa 2000. Di questi, solo 1500 i corpi ritrovati, meno della metà quelli riconosciuti.

Dall’altro lato

Risalgo in macchina e proseguo lungo i tornanti che portano verso il paese di Erto. Voglio continuare da sola la mia giornata sul Vajont, ho bisogno di un po’ di solitudine per capire bene ciò che mi circonda. Mi fermo nel primo spiazzo vuoto, scendo dall’auto e mi rendo conto che l’unico rumore che sento è quello del torrente che scorre centinaia di metri più sotto. Davanti a me, il monte Toc è nudo, mentre attorno ho solo calcari tiltati e piegati, ormai già colonizzati da qualche albero pioniere. Ci metto poco a capire che, in realtà, da quando ho visto la diga, ho sempre guidato e camminato sopra il corpo di frana

Mi sento piccola, spaesata e confusa. È come se quel poco che so di geologia fosse messo in discussione senza diritto di replica. Per me, studiare questa materia ha sempre significato imparare gli strumenti per conoscere e leggere il territorio, per stabilire una sorta di convivenza pacifica. Ma qui non è così. Qui sono costretta ad ammettere a me stessa che la mia è una visione ingenua, priva della malizia che forse serve per fare il geologo di professione.

Hanno costruito la diga pur sapendo che non era il luogo adatto e hanno volutamente omesso le informazioni che avevano per far andare avanti il progetto, concludere l’invaso e vendere il tutto allo Stato.

Quindi se qualcuno, in questo esatto momento, mi chiedesse se sono convinta della scelta di studi che ho fatto, sicuramente vacillerei. Sarei mai in grado di comportarmi allo stesso modo? Di mettere al primo posto “l’arroganza del potere” (come definita da Tina Merlin) rispetto ai miei valori?

Passano i minuti e non si ferma nessuno. Eppure è in questo punto esatto che dovrebbero venire i turisti, per vedere che nella valle del Vajont il problema non è la diga. Il vero problema è talmente grande da essere invisibile, malamente celato dietro l’unica struttura a essere sopravvissuta al disastro. 

“Dio ci salvi dai sciacalli del Vajont

“Dio ci salvi dai sciacalli del Vajont”, scritto su una casa abbandonata a Erto e Casso

Prima di tornare a casa, faccio un’ultima passeggiata tra i vicoli della vecchia Erto. A parte la chiesa e una piccola osteria, il paese è quasi disabitato. Dopo il disastro, tutti gli abitanti sopravvissuti sono stati evacuati d’urgenza per il timore di altri crolli e le poche famiglie che hanno fatto ritorno hanno costruito nuove case a quote più elevate, per preservare il ricordo della Erto di un tempo.

La casette in pietra sono una addossata all’altra, alcune con il tetto distrutto, altre con rami che escono dalle finestre. Le stradine lastricate di sanpietrini sono strette anche per le persone, figuriamoci per le macchine. Se non fosse per qualche gatto che si fa coccolare dai turisti di passaggio, qui non ci vivrebbe quasi nessuno. 

Mi fermo a parlare con una signora di mezza età: fuma una sigaretta seduta sui gradini di casa, non sembra dispiaciuta di incontrare gente nuova. Mi racconta di come Erto rinasca con la bella stagione, di chi ha una seconda casa e torna per le vacanze e dei turisti che si aggirano incuriositi. Il merito, mi spiega, è anche della pubblicità che ne fa Mauro Corona dalla “Bianchina”, come la chiama lui. E di questo hanno bisogno: di mantenere vivo il ricordo di una valle sfruttata e abbandonata, che resiste solo grazie al clamore di chi il disastro, ogni tanto, lo racconta

Un po’ mi sento in colpa, e nascondo il mio essere geologa. Non so perché, ma mi sento responsabile anche io, nel mio piccolo. L’unica cosa che posso fare è tornare a casa con meno risposte di quando sono partita.

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